La Seconda guerra mondiale durò per l’Italia 1.785 giorni, le vittime accertate furono il 1,07% della popolazione, ovvero 472.354. I feriti, mutilati e invalidi italiani sui vari fronti furono circa oltre 320.000. In tutte le grandi città furono rase al suolo, (purtroppo principalmente a causa dei bombardamenti degli eserciti di liberazione) circa il 50% delle abitazioni civili. (fonte Wikipedia)

Per i cinque anni di guerra indistintamente tutta la popolazione, soprattutto nelle città, fu ridotta alla fame; fame, mancanza di nutrimento, non carenza di qualche prodotto.

E quando gli eserciti alleati finalmente dalla Sicilia risalirono l’Italia, proprio nel momento della liberazione dal nazifascismo, ci furono eventi spaventosi:

“….. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal “Corpo di Spedizione Francese”, che iniziò le proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 180.000 violenze carnali. I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 magrebini” (testimonianza di Emiliano Ciotti, fonte Wikipedia)

Questa è guerra, quasi cinquecentomila morti, oltre trecentomila invalidi, cinque anni di fame assoluta e solo negli ultimi mesi, nel momento della festa della liberazione, almeno sessantamila donne violentate ripetutamente dai militari degli eserciti che sarebbero stati nostri amici.

Questa è guerra, alla fine della Seconda guerra mondiale i morti in Unione Sovietica erano stati ventitré milioni, il 16,4% della popolazione, i morti in Germania sette milioni seicentomila, il 9,74% della popolazione, i morti in Cina diciannove milioni seicentomila, il 3,7% della popolazione, i morti in Giappone due milioni seicentotrentamila il 3, 37% della popolazione, e così via. (fonte Wikipedia)

Questa è guerra.

Oggi, davanti alla pandemia, diciamo di essere in guerra.

Cosa ne direbbero quegli oltre venti milioni di italiani senza casa a causa dei bombardamenti, esposti alla fame e a ogni forma di violenza e umiliazione per cinque anni, e il mezzo milione di morti e gli oltre trecentomila invalidi? Cosa ci direbbe una delle sessantamila donne violentata ripetutamente, per giorni, dalle truppe amiche? Se avete ancora la possibilità di una testimonianza dei vostri vecchi, chiedetegli cosa è la guerra.

Oggi non siamo in guerra, non chiamatela guerra.

Con la pandemia stiamo vivendo un momento di gravissima crisi, le nostre libertà individuali sono temporaneamente limitate, le forme di intrattenimento a noi più care, dal teatro allo stadio all’aperitivo, ci sono negate, il benessere che ci siamo costruito per anni potrebbe ridursi significativamente, il nostro posto di lavoro potrebbe essere a rischio, già abbiamo perso almeno diecimila nostri cari e purtroppo è molto probabile che ne perderemo altri.

Sappiamo anche che le misure di restrizione delle libertà individuali termineranno appena sarà possibile circolare senza infettarsi, sappiamo che le aziende, dove possibile, hanno garantito (nell’interesse comune loro e dei lavoratori) la prosecuzione del lavoro con lo smart working, siamo a conoscenza del fatto che il governo, con il supporto anche di forze politiche di opposizione, sta deliberando forme di sostegno al reddito, dai voucher alla cassa integrazione; soprattutto la nostra sanità, offesa e umiliata da trenta anni di tagli irresponsabili e indiscriminati contro cui poche voci si sono levate, sta dando eccellente prova di sé e sta ricevendo i primi finanziamenti dopo anni bui.

Più saremo rispettosi delle indicazioni, più saremo coesi e solidali, più la ripartenza sarà veloce, e prima torneremo a condizioni di benessere simili a quelle passate. Certo, ci vorrà un anno, forse di più, qualcuno o qualche categoria pagherà più di altre, probabilmente aumenterà il divario tra più ricchi e meno ricchi, qualcuno rimarrà indietro.

Il numero di quelli che pagheranno di più, di quelli che resteranno indietro, dipenderà dalla nostra capacità di essere coesi e solidali; ma il sistema, così com’era, ripartirà.

Non è guerra, non c’è un nemico.

Non sappiamo per certo come e dove è cominciata la pandemia, ma non serve molta arguzia per considerare come insensate le varie tesi complottiste. Il virus infatti

  • sembra originato da una abitudine alimentare orientale (non solo cinese, ma ad esempio diffusa anche nelle ricercate Seychelles), il consumo di pipistrello da frutta, mammifero ideale portatore del virus. Da notare che il pipistrello è molto sensibile ai cambiamenti climatici, e questi e i disboscamenti intensi, in Cina lo hanno spostato dalle zone più boschive alle città, dove le sue feci infette potrebbero inoltre aver contaminato il maiale, altro portatore ideale del virus e così via
  • si è diffuso con la velocità e l’intensità dei voli intercontinentali attraverso i quali viaggia la nostra globalizzazione che pure tanto benessere, piacere e ricchezza culturale ci ha regalato
  • sta uccidendo molto di più nelle zone a più alta densità abitativa e a maggiore inquinamento, dove la situazione ambientale è spesso più critica, e in un contesto mondiale in cui il nostro rapporto con Gaia, la Terra, non è dei migliori.

Abbiamo bisogno di un nemico, per dare senso a tutto quello che sta succedendo, per additare un colpevole, colui che con il suo intervento malvagio ha causato tutto questo; e questo nemico vogliamo colpirlo, è lui il colpevole, allora parliamo di guerra.

Parliamo di guerra, di assalto, irruzione, ultima difesa, confine, ultimo respiro, i nostri eroi. A mio parere usare un linguaggio violento, usare metafore estreme, può, al di là delle intenzioni, generare comportamenti pericolosi quanto la pandemia. Questo da solo meriterebbe un altro post, consentitemi solo di dire che il linguaggio non è innocente, il modo in cui parliamo apre o chiude possibilità, il linguaggio è generativo, se dico che siamo in guerra mi sentirò autorizzato a comportarmi, in ogni contesto, come se fossi davvero in guerra. E domandiamoci cosa succederebbe se cento persone assieme dichiarassero di essere in guerra, magari difronte all’ipermercato dove per entrare, quel giorno si deve fare una fila di due ore.

Per fortuna non siamo in guerra, perché non c’è nessun nemico, se non il nostro modo di vivere, il nostro legittimo e umano e comprensibile bisogno di crescere, sempre di più, sempre più in fretta, di aumentare il nostro benessere di oggi, ritmi e livelli sempre più alti, forse troppo spesso solo al ritmo di chi ce la fa, al ritmo dei primi e non dei più, per non parlare degli ultimi.

Ma continuiamo a parlare di guerra, cerchiamo un nemico, ne abbiamo bisogno per dare senso a tutto questo, tutto quanto è avvenuto deve essere colpa di qualcuno, qualcuno al di fuori di noi. Noi siamo innocenti, ci diciamo, e non vediamo che, dichiarando la nostra innocenza, dichiarando la nostra estraneità a quanto avviene, dichiariamo la nostra impotenza ad agire su questa situazione.

Siamo globalizzati, ma solo in parte: non abbiamo pensato, o voluto, creare una difesa globale contro questi eventi, non abbiamo un sistema sanitario mondiale, risorse condivise che segnalino, studino, intervengano e ci tutelino tutti. Nuotiamo in un mare immenso e parzialmente ignoto, potenzialmente pericoloso, dove non abbiamo protezioni e nel quale continuiamo ad addentrarci. Ci spostiamo con voli intercontinentali sempre più affollati, per affari o per vacanze, verso regioni sempre più lontane, delle quali sappiamo davvero poco se non che sono molto diverse da noi e dal nostro paese. Ricordiamo che, nel nostro piccolo, solo in trent’anni in Italia abbiamo ridotto del 60% i posti letto negli ospedali, dal 2009 al 2018 abbiamo ridotto di 37 mld € le spese per la sanità italiana, e siamo nella civilissima Italia, della quale a ragione siamo orgogliosi. Qual è la situazione delle nostre mete esotiche?

Non siamo in guerra, possiamo scegliere.

Personalmente credo che questo sia il tempo della responsabilità, non certo come colpa, ma come respons-abilità, come capacità a rispondere. Siamo in questo problema, possiamo e vogliamo essere parte della soluzione, con i nostri comportamenti individuali oggi e con le nostre scelte future.

Credo che oggi sia tempo di riflettere, di conversare con noi stessi e con gli altri, credo che sia tempo di chiederci se e quanto siamo disposti a scommettere in un gioco dove ogni tanto, come in questi mesi, si perde, e si perde molto. Perché è parte delle regole di questo gioco perdere, se continueremo con lo stesso gioco sarà possibile perdere ancora.

Oggi siamo noi italiani i reietti, gli appestati, quelli che gli altri non vogliono, come negli anni passati noi non abbiamo voluto gli altri. Oggi siamo noi quelli che alcuni stati, maligni e miopi, non vogliono aiutare. Ma tra pochi giorni o settimane certamente tutto tornerà a posto, tutti ci vorranno, e forse saremo noi di nuovo a non volere gli altri; in pochi mesi o in qualche anno recupereremo anche economicamente, come abbiamo recuperato nelle precedenti crisi economiche.

Una riflessione la dobbiamo.

Ma questa volta non perdiamo l’opportunità di apprendimento. Invece di dichiarare guerra (a chi poi, al nostro stile di vita?) avvaliamoci dell’opportunità che è parte di ogni crisi, chiediamoci se e quale altro modo, e quale altro mondo, è possibile. Credo che, prima di tornare agli aperitivi e al ritmo sempre più veloce, ancora più veloce perché vorremo recuperare anche quello che abbiamo perso, almeno una riflessione la dobbiamo.

Una riflessione la dobbiamo a noi stessi, segregati in casa dal mondo che abbiamo contribuito a modellare.

Un’altra riflessione la dobbiamo ai nostri vecchi; la nostra civiltà nasce dal gesto di Enea, che prende sulle spalle il vecchio padre Anchise, paralizzato; a me sembra che noi in questo frangente non abbiamo saputo proteggerli, i nostri vecchi, come ci hanno protetto loro in passato, come avrebbero meritato, e come meritano per il futuro.

Un’ultima riflessione, prima di ricominciare allo stesso modo, la dobbiamo ai nostri figli. Con loro, portandoli alla luce, credo abbiamo contratto un impegno indelebile per un mondo sempre migliore, e quello che sta succedendo, a mio parere, non onora il nostro impegno.

Chiediamoci, il giorno che usciremo di nuovo, per l’ufficio, il cinema, lo stadio, il teatro, gli aperitivi, chiediamoci se va davvero bene così, o se vogliamo cambiare paradigma.

Dipende soltanto da noi, noi abbiamo il potere.

Se va bene così possiamo ricominciare, tutto come prima, sperando che non succeda di nuovo.

Se vogliamo qualcosa di diverso, oggi abbiamo un’opportunità unica.

E, per riflettere, vi propongo la lettura di Italo Calvino, Le città invisibili, (edizioni Einaudi) più specificamente consiglio la lettura di Leonia, prima tra le città continue, per coincidenza ne ho ascoltato l’audiobook ieri, mentre passeggiavo percorrendo cerchi concentrici intorno a casa mia.

Il racconto di quel mondo fantastico inizia così:

“La città di Leonia rifà sé stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio.

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto.

… e conclude così:

… Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.

Originariamente pubblicato su AgoraVox